A diary

Can you feel the life in all the new born leaves on every tree..?

Armi di difesa contro l’Apocalisse Zombie

Anche se ci hanno sempre fatto credere il contrario, l’Apocalisse Zombie potrebbe scatenarsi sulla Terra da un momento all’altro.
Per questo è importante sapere come difendersi e con che strumenti. Sorprendentemente, i nostri oggetti di tutti i giorni possono tornare utili in situazioni di emergenza.

Innanzitutto è bene ricordare la prima e fondamentale regola per difendersi durante un’Apocalisse Zombie: colpire sempre la testa.
Uno zombie gambizzato potrà essere rallentato, ma costituirà sempre una potenziale minaccia. Solo la distruzione del cervello garantirà la neutralizzazione del pericolo.

Ecco una serie di strumenti che, se utilizzati nel modo corretto, potranno salvarvi la vita.

 

– Cavalletto: uno dei pochi aspetti positivi del girare con un cavalletto sottobraccio è che esso può trasformarsi in un’arma. Impugnatelo per i piedi e imprimetegli una rotazione orizzontale, come se doveste battere una palla di baseball. L’accelerazione e la testa del cavalletto, con tutte quelle viti di regolazione, faranno il resto.

– Ombrellone: niente di peggio che essere colti da un’orda di zombie affamati mentre vi state godendo il meritato relax in riva al mare! Ma non lasciatevi scoraggiare. Estraete l’asta dell’ombrellone dalla sabbia e usatela come se fosse una picca. E’ bene che separiate le due parti del fusto, in modo che l’ombrello aperto non freni la corsa del vostro micidiale bastone. La punta vi sembrerà come un coltello in un panetto di burro.

– Sedia pieghevole: vi state piacevolmente gustando una birra in una calda serata d’estate, siete seduti a un tavolino all’aperto di un locale, quando avvertite degli strani rumori. No, non è un ubriaco, ma sono zombie affamati! Niente panico. Innanzitutto mettete le vostre birre in un luogo sicuro, successivamente chiudete la sedia sulla quale eravate seduti e impugnatela per le gambe. Brandita di taglio convincerà anche gli zombie più testardi.

…To be continued

Acqua

Schiaccio il naso contro la tapparella.
Piove.
I tetti luccicano sotto le luci gialle dei lampioni.
La notte è fresca di gocce.
Respiro a pieni polmoni l’odore di asfalto bagnato.
Si ferma per un istante in gola.
Poi riprende la discesa.
Il sole tornerà.
Domani, o un altro giorno.

Mission accomplished

Ci vorrebbe un deposito per tutti quei ricordi che si hanno e dei quali ci si vorrebbe liberare.
Una stanzona ampia, fredda, con le pareti bianche e con tutte quelle luci al neon, travi d’acciaio e scaffali. Una fila sterminata di scaffali.
I videogiochi insegnano; dopo un po’ che raccogli oggetti lungo la via, il bagaglio pesa troppo, e il personaggio non può più camminare.
Ci vorrebbe un posto dove poter archiviare tutti quei ricordi dei quali non si ha bisogno nell’immediato, dove poterli riporre in sistematico ordine, per lettera dell’alfabeto, o per categoria: amori finiti, amori non corrisposti, amicizie perdute, litigi, questioni in sospeso, questioni irrisolvibili. Cose così. Tutti quegli artefatti che appesantiscono il nostro cammino verso il completamento dell’obiettivo.
Il bagaglio del personaggio deve essere leggero, è necessario discriminare attentamente tra gli oggetti utili e quelli che pensi “forse mi potrebbe servire”. Di sicuro non servirà. E di solito la missione viene portata a termine con successo.

Piango

perchè so che perdendo te
persi qualcosa di ancora più prezioso

Le dighe dell’anima

Mi cadono lacrime di vecchia data lungo le guance
Non le saprei neanche datare
Mi bastano quattro note per sbloccare gli argini
Non è un fiume in piena ma piccoli torrenti tumultuosi
Che sgorgano e si placano nel tragitto dall’occhio al mento
Piccoli nodi dei mali passati che si sciolgono
Piccole consapevolezze che tornano amare alla bocca
Grandi ricordi rinchiusi negli scrigni del cuore
Senza osare girare la chiave nel lucchetto
Custodirla al collo come un ciondolo prezioso
È la vita che scorre come lancette di un orologio a carica

-Untitled-

Giorni in cui il passato si insinua nel presente in modo ciclico e violento, un po’ subdolamente, un po’ allusivo. Ognuno ha i suoi scheletrini negli armadi, tutto sta nel come li si tratta. Soffiarci sopra ogni tanto per levare la polvere grossolanamente, o con una perizia archeologica spennellarli osso per osso, vertebra per vertebra.
Domani, domani. Uno dice domani. Spolveralo domani, che oggi non hai abbastanza fiato.

A Villa Gaia sono sbocciate le rose

A Villa Gaia sono sbocciate le rose. Sono di due colori diversi, si arrampicano bianche sul balconcino del primo piano, e spuntano curiose e rosse attraverso il cancello d’ingresso.
Fino a ieri non c’era nessun segno di colore, se non il groviglio disordinato di rovi scuri e secchi, o sarà perché era un po’ che non ci passavo davanti.
Ma oggi sono sbocciate le rose. Il sole è alto nel cielo, la brezza mattutina punge leggermente sul viso mentre la strada procede lenta al di fuori del finestrino dell’autobus. Finalmente il cielo è blu.
Che di solito è un po’ come la sabbia sotto i denti, quando sorridi ma senti i granelli che scrocchiano tra i molari, e non puoi fare a meno di provare un senso di disgusto nonostante questa smorfia di facciata, perché mica puoi farlo vedere agli altri che ti fa schifo.
E poi non puoi fare altro che deglutire. Vorresti sputare fuori tutto, sabbia e rabbia, ma tutto ti dice di deglutire, in silenzio, senza fare scenate senza dare fastidio a nessuno. Deglutire. Fino ad avere tanta sabbia nello stomaco, fino a provocarti gastriti e ulcere.
Perché è come mangiare piccole cucchiaiate di sabbia asciutta e secca; un po’ come la sensazione dello zucchero, solo che il sapore è diverso, solo che lo zucchero si scioglie, e che altro puoi fare, se non ingoiare tutto fino alla nausea e in più totale silenzio? Una più o meno piccola tortura auto inflitta, in modo non del tutto consapevole, non del tutto incosciente.
Come chiudere gli occhi su tutto e non guardare più i rovi aggrovigliati delle rose, non guardare più il freddo cemento del mondo, solo sperare che la sabbia a un certo punto finisca, prima che ottenebri i sensi che ti restano, che ovatti l’udito, che intasi l’olfatto e che soffochi il gusto, sperando che si trasformi in zucchero, sperando che l’acqua la sciolga e ne faccia liquido dolce che scenda e sgorghi i grumi.
Ma oggi a Villa Gaia sono sbocciate le rose.

Un altro anno

Mio Dio, riaprire questo blog dopo tanto tempo è così strano. Ma forse ci voleva questo periodo catartico per riaprire la pagina e trovarmi del tutto nuova.
Lo faccio per scrivere una lettera aperta, una lettera che so che non potrebbe e non potrà mai arrivare a destinazione come vorrei.
Un altro anno è passato. Un altro anno in cui la mia vita universitaria è stata, come sempre, il centro del mio mondo. Un altro anno di avventure vicissitudini che si sono avvicendate un giorno dopo l’altro, un passo dopo l’altro.
La mia certezza, quella più profonda e  radicata, è stata per tutto questo anno quella di mettere piede in un’aula sapendo di entrare in un universo parallelo, conscia di immergermi in un mondo fatto di persone speciali.
Poche parole riescono davvero a definire questi eventi. Non è stato l’incontro di persone nuove, ma l’incontro di quelle vecchie. Quelle persone che non ti riempiono la vita fino a un certo punto in cui iniziano a inondarti di gioie sempre nuove, non scoperte fino a quel momento.

I momenti vuoti e i momenti pieni.
La stanchezza per gli esami.
La nuova piccola dolcissima entrata bionda.
Le lunghe giornate in 124.
La serata a Como.
La certezza di trovare voi quattro seduti al tavolo.
Risate, dispetti.
Daniele che arriva come sempre a tenermi dolce compagnia.

Tutto. Tante cose. Troppe.

Come condensare le sensazioni di un anno in una lettera aperta?
Forse solo oggi è la risposta giusta.
Vi amo. Tutti. Vi amo per i momenti meravigliosi che mi avete fatto passare insieme a voi, per i piccoli e grandi momenti di vita che abbiamo condiviso.
Un altro anno è passato. Un altro ne passerà, già temo senza di voi, ma so che costruiremo una nostra nuova quotidianità, come abbiamo sempre fatto.
Perchè come sopportare di entrare in 124 e non trovare più voi quattro al tavolo? E non trovare 3+1 bionde? E non trovare i miei meravigliosi amici compagni di 550 avventure?
Come potrà Daniele sopportarmi mentre sopperirà a tutte queste vostre assenze?
Ma io lo so che non sarà così. Io lo so che non ci perderemo.
E un altro anno passerà.

Bones

Ci sono giorni sull’autobus in cui oltre a trovare posto per appoggiare le tue membra più o meno stanche, trovi posto per appoggiare pensieri sparsi qua e là, come se gli altri passeggeri li dovessero ascoltare.
Alla fine, tutti abbiamo degli scheletri negli armadi; chi nelle credenze, chi in qualche mobiletto basso ed essenziale, chi nelle vetrinette d’antiquariato della nonna.
I miei scheletri sono lì, in giacenza, forse aspettando che passi la raccolta rifiuti ingombranti a caricarli e gettarli via, nella fossa comune. Non credo si meritino una degna sepoltura.
Apro l’armadio e li strappo fuori, per i denti -cosa che avrei desiderato fare qualche chilo, loro, fa- afferro le ulne scarnificate, immagino situazioni che non si verificheranno mai. Come puoi parlare con uno scheletro, e pretendere che ti risponda?
Certi non lo fanno nemmeno quando hanno ancora tutta la carne attaccata addosso.
L’espressione truce come se li avessi davanti per davvero. La voglia di disassemblare le ossa una per una, e lanciarle fuori dal finestrino, accompagnate da un insulto represso dentro la gola.
Arriva la mia fermata…
Salto giù dal gradino, incrocio gli occhi della mia vita. Non uno scheletro, ma due gocce di ghiaccio purissimo, fresca sensazione di respiro, incastonate in carne vibrante.
Gli scheletri si schiantano con un rumore secco contro le porte appena chiuse dell’autobus, picchiano sul vetro, vorrebbero saltare giù, riafferrarmi, reimpadronirsi di me riaprendo le ante del mio armadietto e rintanandosi protetti tra i miei vestitini colorati.
Ma io sono giù. Fra le braccia di chi starà sempre dall’altra parte dell’armadio.
L’autobus parte, gli scheletri li faccio arrivare al capolinea, che laggiù magari qualcuno li smantella.

Ti cederei la mia punta del Cornetto Algida

Mi crogiolo in questa serenità
E’ una sensazione ogni volta nuova
Trovare due occhi in un mondo
E un mondo in due occhi
E voler ridere e piangere
Messa a nudo come mai prima
Percepisco la felicità